Com’è lo stato di salute dell’euro oggi?
Direi pessimo, nella misura in cui a mio avviso nessuna delle misure prese (o ventilate) da Bruxelles ha la possibilità di farlo funzionare come servirebbe. Questa moneta continuerà a mantenere l’Unione Europea sull’orlo di un baratro, affliggendo uno dopo l’altro quegli Stati che presentano maggiori debolezze. Possiamo prevedere per le prossime settimane una breve ondata di sollievo per le Borse, gli spread ecc., ma a metà agosto (che è sempre il periodo più critico) ritorneremo nella condizione precedente. Esistono del resto in Europa situazioni già precipitate nel baratro, non più sull’orlo, come quella greca, per la quale non si prende nessuna misura, continuando a ignorarla (nonostante quegli stessi politici che hanno voluto le nuove elezioni in Grecia abbiano già spiegato che la situazione, così come’è, è insostenibile).
Quale sarà dunque il futuro dell’Unione Europea?
Se continua a rimanere nelle mani degli attuali governanti (Monti, Merkel, ecc.), prevedo due scenari possibili: nel primo, la situazione esploderà all’improvviso, con una successione di disastri economici che investono i Paesi più deboli (ma con ripercussioni, alla lunga, anche sulle economie più forti su scala globale); nel secondo, la situazione si configura come uno stato di incertezza “stabile”, in cui è impossibile ipotizzare qualunque piano di risanamento (anche se si prevedessero misure ben più serie di quelle “finte” volute a Bruxelles). A farne le spese sarebbero in fin dei conti la sostenibilità (che necessita di un indirizzo politico preciso) e la democrazia, adesso sacrificata alle “ragioni del bilancio”. Perché bisogna ricordare che ogni decisione presa dagli organismi economici europei corrisponde a una sottrazione di potere a coloro che sarebbero in linea di principio i detentori di quel potere, cioè i popoli; quegli organismi, infatti, sono sovranazionali e non eletti: essi non sono null’altro che l’espressione della finanza internazionale.
Bruno Amoroso ha sostenuto che l’euro è una “camicia di forza”. Cosa ne pensa?
Sì, ma non solo. Non vogliamo misconoscere i benefici recati dall’euro, che ha facilitato gli scambi, sia quelli strettamente economici sia quelli culturali (non si può negare che l’euro abbia portato un notevole avvicinamento dei Paesi dell’Unione Europea – secondo forse solo al calcio – scherza il professore sorridendo, N.D.R.). Tuttavia la sua introduzione è stata effettuata in modi tali da produrre un rafforzamento nonché un’occasione di speculazione per la finanza internazionale, a spese di tutte quelle istituzioni che avevano saputo trovare in passato un equilibrio tra il capitale e il lavoro (a cominciare dal welfare state). Ma il problema non è soltanto l’euro, continua il professore, anzi il più grande dei problemi è politico e risiede nell’incapacità dei governanti moderni di elaborare un pensiero strategico all’altezza della condizione globale. C’è stato negli ultimi trent’anni un impressionante impoverimento del pensiero, di una cultura che ha finito per appiattirsi sulle posizioni del neoliberismo dogmatico per il quale al dominio dei mercati non c’è nessuna alternativa, in quanto i mercati sarebbero gli unici in grado di allocare le risorse in maniera ottimale. Credo, alla luce dei più recenti eventi europei e mondiali, che un fallimento più evidente di questo dogma non si potrebbe mostrare, eppure la fede in esso rimane incrollabile. Ma non tanto per il suo intrinseco potere di persuasione quanto – insisterei su questo punto – per l’incapacità di chi è al governo (e all’opposizione) di immaginare un’alternativa percorribile.
Esiste dunque un’alternativa?
Certamente; va però detto a chiare lettere che si tratta di un’alternativa radicale, che richiede un’opposizione strenua al dominio della finanza. Le misure possono essere diverse: dalla tassa sulle transazioni finanziarie, alla messa al bando dei paradisi fiscali, dalla separazione fra banche di investimento e banche commerciali, fino alla ristrutturazione dei debiti per i Paesi che ne sono letteralmente schiacciati. Queste cose, da un lato. Dall’altro, una serie di politiche diverse da quelle proposte. Credo che la ricetta “standard” per la crescita (cioè mettersi in concorrenza con la Germania sul piano delle esportazioni, tramite l’abbassamento dei salari e la precarizzazione del lavoro) non abbia nessuna prospettiva. Perché è un fatto che la Germania abbia aumentato le proprie esportazioni a scapito di altri Paesi dell’Unione, che le hanno diminuite; un aumento delle esportazioni italiane non potrebbe che andare a scapito di quelle tedesche (ipotesi poco probabile). Conclusione: la via della ripresa della crescita attraverso le esportazioni è senz’altro preclusa; l’unica alternativa è, al contrario della crescita, un ridimensionamento del mercato interno che si appoggi meno sul binomio importazioni/esportazioni e che rilocalizzi le produzioni che possono avere un futuro in quanto sostenibili da un punto di vista ambientale: sto parlando di agricoltura, energie rinnovabili, efficienza energetica, cura del territorio, edilizia sostenibile e, soprattutto, mobilità sostenibile (cioè non più basata sul mezzo di trasporto individuale).
Ipotizza dunque un modello di decrescita che potrebbe essere avvicinato a quello di Serge Latouche?
Non la chiamerei decrescita, anche perché il termine è inviso e ritengo anche fuorviante: non si tratta infatti di misurare la crescita o la decrescita, ma di riconvertire produzioni che hanno oggi scarso mercato (penso alle automobili, per fare solo un esempio fra i tanti possibili), alti costi ambientali e nessuna prospettiva occupazionale con produzioni diverse, che hanno un futuro perché pensate nei termini della sostenibilità (concetto dal quale credo nessun ragionamento economico possa oggi prescindere), ad alto potenziale di occupazione e in grado di migliorare la vivibilità dell’ambiente.
Questa idea di produzione sostenibile è conciliabile con quello di una crescita infinita?
Assolutamente no: con ogni evidenza, se si punta sulla sostenibilità ambientale (cosa che auspico e per cui lavoro), la crescita della produzione dovrà incontrare un limite e riproporsi attraverso una distribuzione più egualitaria – sia in senso geografico, sia in senso sociale ed intergenerazionale – di quello che si produce. Lo spazio per questa redistribuzione fondata su un diverso modello di produzione esiste; semplicemente mancano oggi delle forze per sostenerla in misura adeguata, a fronte di uno strapotere della finanza internazionale a cui i governi della maggior parte dei Paesi sono ormai asserviti, in maniera più o meno esplicita.
Perché si ha sempre la sensazione che il capitale finanziario sia “il nemico”?
Perché questa è la veste assunta oggi dal capitalismo, o più in generale dal potere economico. C’è stato nel corso degli ultimi trent’anni un progressivo allontanamento della produzione dai centri nevralgici del capitale che la controlla. Una volta padrone e operaio erano faccia a faccia, e le strategie di chi progettava e dirigeva il lavoro venivano elaborate nello stesso luogo di chi poi avrebbe eseguito quel lavoro. Oggi, grazie alla libera circolazione dei capitali (complice il web), i luoghi dove si decide possono essere agli antipodi di quelli in cui si lavora e si produce. La delocalizzazione è una delle facce di questo fenomeno: lì si vede chiaramente che le decisioni vengono sottratte ai governi e alle rappresentanze popolari locali (sindacati, ecc.) e conferite ai capitali finanziari sparsi per il mondo.
C’è qualcosa che i cittadini potrebbero fare, in questa situazione di smarrimento?
Sì, tantissimo. Innanzitutto, aggregarsi, ricominciando a mettere in comune i propri problemi e studiare insieme le soluzioni possibili; poi, orientare i loro comportamenti e le loro scelte politiche verso la sostenibilità; cercare infine di coinvolgere – prima che la politica nazionale ed internazionale – le rappresentanze politiche locali, le associazioni, i municipi, i comuni, ma anche le piccole aziende locali in crisi, valutando idee di riconversione della produzione indirizzata specificamente ai bisogni della comunità.
Per concludere: si è soliti ripetere che Monti è un tecnico e che ha le mani legate. C’è una proposta che potremmo fare subito al governo, per dare un segnale forte di indipendenza politica e di prospettiva economica, a questo Paese che ne ha tanto bisogno?
Intanto vorrei precisare che non considero Monti un tecnico ma la quintessenza della politica, anche un po’ imbrogliona (possiamo dirlo oggi, visto che Monti ha palesemente mentito su più di una questione, dall’Alta Velocità alle stime sulla crescita). Tuttavia le cose che potrebbero essere fatte immediatamente sono molte: prima fra tutte, intervenire sulle aziende in crisi, che sono migliaia oggi in Italia, per mettere a punto delle operazioni di riconversione produttiva che confermino l’occupazione e anzi la espandano. Mi sembrerebbe il modo migliore per ricominciare.