di Michele Primi
Seattle, Stato di Washington. Fine anni cinquanta, molto prima del movimento per i diritti civili. Il quartiere di Rainer Vista è un ghetto di afroamericani. Per racimolare qualche soldo in più, Al Hendrix sgombera le cantine. Si porta dietro due dei suoi cinque figli, Johnny Allen detto Jimi e il piccolo Leon: «Stavamo ripulendo una cantina, e il proprietario ci ha detto che potevamo tenerci tutto quello che ci serviva », racconta Leon. Jimi Hendrix ha quattordici anni. «Ad un certo punto Jimi trova una chitarra, un vecchio modello acustico della Sears, Roebuck & Co senza corde, con il manico quasi spezzato.
Quella è la sua prima chitarra». Inizia così la leggenda dell’uomo che ha incendiato ed elettrificato la musica moderna, e l’idea stessa di intrattenimento, aprendo i confini del rock fino a raggiungere universi sconosciuti, prima di venire travolto e consumato dalla sua stessa creatività. Leon lo chiamava “Buster ”, come Buster Crabbe, delle serie tv di fantascienza Flash Gordon e Buck Rogers: «La nostra era una famiglia disastrata che viveva in condizioni di povertà. Credo che questa sofferenza, questo senso di solitudine e abbandono siano alle origini della musica all’a pparenza incomprensibile di Jimi». I quartieri di Rainer Vista è il titolo del primo capitolo di Jimi Hendrix, Storia di mio fratello, il libro di Leon Hendrix uscito il 20 novembre, a sette giorni esatti da uno storico compleanno in cui Hendrix avrebbe compiuto 70 anni. È il racconto della genesi del miglior chitarrista nella storia del rock (una classifica di Rolling Stone dei 100 guitar hero scelti e votati da illustri colleghi lo ha piazzato per l’ennesima volta al numero uno davanti ad Eric Clapton),
ripercorrendo una complessa storia familiare e un rapporto commovente, quello del travolgente Jimi con il suo timido fratellino minore: «Era la mia guida, sempre pronto ad aiutarmi e a tirarmi fuori dai guai» racconta Leon dalla sua casa di Los Angeles, dove oggi gestisce insieme alla moglie un centro di educazione musicale per minori a rischio, «Purtroppo non sono sempre riuscito a seguire i suoi consigli». Il 18 settembre del 1970, Leon Hendrix è rinchiuso nel Riformatorio Monroe dello Stato di Washington. Gli mancano sei mesi prima di uscire. Il direttore lo convoca nell ’ufficio del cappellano: «Quando ti arriva una chiamata del genere in carcere, vuol dire solo una cosa: o stai per uscire o è morto qualcuno. Io sapevo che non sarei uscito quel giorno. Ogni tanto girava voce che mio fratello era morto, io immaginavo che fossero solo un mucchio di sciocchezze inventate dalla stampa per vendere. Per anni avevano detto che faceva cose che non aveva mai fatto. Quando la porta della mia cella si aprì, l’intero blocco del carcere si riempì di silenzio. Da una delle celle si sentiva suonare If 6 Was 9. Mi passarono mio padre al telefono. E lui me lo disse: Jimi se ne è andato, figlio mio». Leon lo ha visto sorgere prima come magistrale chitarrista e autodidatta purista del blues, poi come sperimentatore instancabile e superstar del rock adorato dalle donne e dai fan - dalle ceneri di un ragazzo difficile, con un futuro incerto davanti: «Io e Jimi abbiamo avuto problemi con la legge, e per non finire in carcere siamo stati costretti ad arruolarci nell’esercito. Ma lui era nei paracadutisti, si è rotto una gamba ed è stato congedato. Dal momento in cui si è liberato da ogni vincolo con la società, si è dedicato solo alla musica. Non era bravo a suonare, sapeva solo sperimentare ». La base di partenza è il blues, che Jimi e Leon ascoltano da bambini su una vecchia radio, nascosti in un armadio, al riparo dalle liti e dall’alcool che distruggono la vita di Al e sua moglie Lucille: «Non potevamo mai uscire di casa, e l’unica forma di educazione era il blues, Muddy Waters e Willy Dixon. Jimi cercava di risuonare tutti i loro pezzi. È partito da lì, e poi è andato in una direzione imprevedibile». È lo spazio, l’altrove da cui è sempre sembrato provenire: «Parlava di cose che non erano scritte in nessun libro: l’universo, gli angeli, le energie cosmiche. Quando l’ho visto per la prima volta dal vivo, all’Hollywood Bowl di Los Angeles nel 1968, ho capito finalmente cosa voleva dire». Una domanda tormenta da sempre gli storici del rock: cosa avrebbe fatto Hendrix se fosse vissuto più a lungo? Molti pensano che la sua morte abbia salvato la sua eredità di più grande di sempre. Leon invece non ha dubbi: «Avrebbe composto sinfonie. Quella era la sua direzione, voleva dirigere un’orchestra con cento violini, fiati e tutto il resto. Mi diceva sempre: ‘Ho tutta questa musica in testa, devo trovare il modo di farla uscire’». Il paradosso di Hendrix è che nessuno degli artisti con cui esordisce, da Ray Charles a Ike Turner, dagli Isley Brothers a Little Richard, capisce che cosa si trova davanti: «Veniva assunto il venerdì sera e licenziato la domenica» dice Hendrix. «Era un esplosivo chitarrista afroamericano di origini indiane, che suonava oltre la musica del tempo. Comprava i vestiti nei negozi da donna, era sfrenato e sessuale. Semplicemente troppo più affascinante di loro». Ci vogliono gli inglesi per capirlo, da Chas Chandler che lo scopre al Cheetah Club di New York, a Paul McCartney che lo impone agli organizzatori del festival di Monterrey il 18 giugno del 1967, quando la tempesta perfetta della rock rivolution sta cavalcando la sua onda più alta e Sgt Pepper’s dei Beatles è uscito da appena due settimane. Solo allora, tutti si inchinano di fronte al genio venuto da un mondo ignoto, che cambia per sempre il significato e il suono del rock’n’roll. Lasciando in cambio una vita: «Tutti venerano Jimi come un dio» dice Leon Hendrix «Per me era solo il mio grande e buono fratello maggiore. Si prendeva cura di me.
Pubblico - 22.11.12