parcomareIl progetto del parco del mare.

Mentre stamane alcuni operai iniziavano i lavori di demolizione dell’ ex Fiera di Trieste, al Circolo della Stampa, di fronte alla ex sede della RAS, palazzo di stile eclettico del 1904, trasformato in un resort di lusso per turisti danarosi, associazioni di cittadini, Cgil, WWF, Legambiente, Triestebella e il “Comitato Lanterna” hanno motivato i loro dubbi e la più aperta contrarietà alla realizzazione del progetto del “Parco del Mare”.

Si tratterebbe di una megastruttura acquario/museale da realizzare nel sito storico di un antico approdo romano ed in una zona strategica della città, anche dal punto di vista dell’appetibilità commerciale, su cui sorge il Faro della Lanterna, eretto dall’amministrazione austriaca nel 1833.

Stesso luogo dove, per spazzar via le vestigia del passato asburgico della città, si erano segate tredici anni fa le panchine che stavano attorno alla statua di Massimiliano d’Asburgo e dove si è rifatto il look all’ex magazzino Vini, trasformato in “Eataly da Farinetti.

Un punto della città nel quale, il susseguirsi di Bavisele, Barcolane ed altri appuntamenti ludico/gastronomici, chiude alla vista collettiva il fronte mare e, solo chi sta sul decimo ponte di una meganave da Crociera, può ammirare l’incommensurabile paesaggio che salda le onde dell’estremo lembo dell’Adriatico, con le rocce grigie del ciglione carsico.

Ma Trieste non vuole diventare né una succursale di Disneyland, anzi Dipiazzaland, né un luogo di scorribande per esperimenti di gentrificazione che impoveriscono e deturpano la storia multietnica della città, perdurando il degrado di molti storici edifici cittadini, svenduti a privati o immobiliari.

L’architetto William Starc, come portavoce dei soggetti in conferenza stampa, ha ribadito come oggi si debba pensare alla “riqualificazione collettiva del fronte mare, dalla Lanterna a Miramare”, area su cui c’è un vincolo del MIBAC datato 1961 che impone di non edificare alcunché nel raggio di 130 metri di distanza dallo storico Faro, ma che, nella riscrittura aggiornata del testo, modifica sensibilmente questo divieto, peraltro già bypassato più volte con costruzione di edifici a ridosso di esso.

Dietro all’ improvvisa accelerazione del Progetto pare ci sia, oltre all’attuale presidente della camera di Commercio di Trieste, la “Trieste Navigando srl“ una società che ha in concessione l’area su cui sorge la Lanterna, ma la cui sede sociale è a Roma, nello stesso luogo dove opera Invitalia, la SpA di Paoletti, presidente della locale CCIAA, e presente in molte altre istituzioni e Cda, che si era già speso nel 2004 per far passare questo progetto, in seguito alla mancata candidatura ad EXPO 2008 di Trieste, persa contro la piu’ attrattiva e quotata Saragozza.

“Parco del Mare” oggi è solo la riproposizione di un progetto nato a destra.

Il problema però non è solo la mera speculazione immobiliare e la privatizzazione, o meglio la privazione di usufrutto di spazi pubblici, ma anche l’immobilizzazione di ingenti risorse finanziarie, tra cui quelle del Fondo Trieste, uno strumento istituito nel 1955 per finanziare lavori pubblici o per opere di carattere economico, sociale ed assistenziale.

Quei fondi andrebbero investiti, tanto più in un periodo di crisi occupazionale della città, in operazioni più utili ed intelligenti e non in un’operazione speculativa.

In città si registrano 7000 disoccupati, oltre 1400 posti di lavoro a rischio nel settore industriale e hanno chiuso oltre 350 negozi, il tutto mentre prospera un mercato del lavoro frammentato, irregolare, atipico,transfrontaliero, illegale e crescono le diseguaglianze che alimentano disagio sociale e microcriminalità.

Non servono quindi anacronistici acquari, “zoo per pesci” ha detto qualcuno, ma semmai valorizzare, in quella specifica parte del territorio urbano, la compresenza del Museo del mare e della la Stazione Meridionale con il Museo Ferroviario, e, attraverso la “liberazione” delle Rive ed il pieno ripristino della Piscina Comunale “Acquamarina”, il cui tetto era inspiegabilmente crollato lo scorso luglio, restituire alla cittadinanza un bene comune e la piena e gratuita fruizione degli spazi pubblici sottratti dalla voracità del mercato e ad altri indicibili appetiti.

Da Marino Calcinari, circolo triestino de Il Manifesto.

ambiente18Il 31 ottobre del 2018 lo stato italiano firma un contratto, con il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, per l’affitto e poi l’acquisto, nel 2021, dell’ex ILVA.

Nel novembre del 2019 la ArcelorMittal annuncia che se ne andrà da Taranto. Senza lo scudo penale, la clausola di “non punibilità” dei gestori dello stabilimento, per eventuali danni ad ambiente e salute causati dall’attività nel periodo necessario al completamente del piano ambientale, ovvero fino al 2023, che per l’azienda rappresentava “la base del piano di risanamento”, stando alle parole della amministratrice delegata di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli, il recesso del contratto è irrevocabile e con esso lo spegnimento degli altiforni tramite la colatura della salamandra, la ghisa residua che resta nel fondo del forno, procedura che rende poi necessari 6 mesi prima di riaccendere l’impianto e che indebolisce la possibilità di trovare un nuovo acquirente.

Lo scontro tra il governo e la proprietà della ArcelorMittal ora si gioca tra tavoli politici ed aule di tribunale.

Ma chi è il colosso franco-indiano che ha in mano le sorti di oltre 10.000 lavoratori italiani?

Un gruppo leader del settore siderurgico e minerario, che opera dall’automotive all’edilizia, dagli elettrodomestici fino agli imballaggi ed ha siti industriali in 18 paesi.

Un gruppo sulla cui attività getta ombre un fitto numero di contenziosi ambientali e un operato spesso fuori dalle regole.

È un filo nero di processi penali quello che lega Taranto al Canada, gli USA al Sud Africa, la Francia all’Ucraina*.

Nero, come i puntini sulla mappa del gioco preferito dalle multinazionali: “inquina e scappa”.

Sversamento di cianuro ed ammoniaca in Indiana, lo dice l’EPA, agenzia federale per la protezione dell’ambiente; inquinamento delle acque nella miniera del Fermont, in Quebec, tra il 2011 e il 2013 e altri 39 capi di imputazione.

La multinazionale è sotto processo per l’inquinamento della Mosella, in Francia, per sversamento nelle acque del fiume di acido cloridrico, gestione irregolare di rifiuti e funzionamento non autorizzato di un impianto.

In Sud Africa è attivo un processo per inquinamento e danni alla popolazione Sebokeng, Sharpeville e Boipatong, procedimenti che fanno assurgere la ArcelorMittal al ruolo di più grande inquinatrice di aria nel paese.

Simile situazione in Bosnia Erzegovina, con denunce delle associazioni ambientaliste sullo stato dell’acciaieria di Zenica, e in Ucraina, dove è direttamente il presidente Zelensky ad accusare la multinazionale di non tenere fede agli impegni presi.

La lista dei contenziosi di ArcelorMittal è lunga eppure, un anno fa, quando la compagnia si è presentata alla gara per acquistare l’ILVA di Taranto, nonostante la sua reputazione, l’offerta è stata giudicata la migliore.

Le promesse di mettere in sicurezza l’impianto e i terreni dove sono depositati i minerali di ferro sono parole al vento, lo stesso che sposta le nuvole di polvere rossa sulla città dove si è costretti a scegliere se lavorare o morire.

*Fonte https://mg.co.za/tag/arcelormittal

Una metafora per illustrare i devastanti effetti della fusione dei ghiacciai e del conseguente innalzamento del livello del mare

La comunità scientifica mondiale lancia continui allarmi sull'impressionante velocità con la quale lo scioglimento dei ghiacciai sta avvenendo e sulle conseguenze che questo avrà sul livello dei mari e sulla biosfera terrestre. Nonostante ciò, ad oggi, non è stata adottata nessuna politica adeguata per rallentare e fermare il collasso climatico in atto.
Secondo uno studio comparso su Nature Climate Change nel febbraio 2109 i ghiacciai sono al minimo della loro estensione durante la storia dell'umanità, facendo riaffiorare materiale di radiocarbonio che non vedeva la luce da 40 mila anni.
Ad Aprile un nuovo studio ha quantificato quanto la perdita di ghiaccio stia incidendo sull'innalzamento del livello del mare.

Le prime misurazioni attendibili risalgono al 1961 e le ultime al 2018 e, in questo lasso di tempo, l'oceano è cresciuto di 27 millimetri in conseguenza dello scioglimento dei ghiacci non polari. Gli scienziati hanno sempre saputo naturalmente che i ghiacciai contribuiscono all'innalzamento del livello del mare, ma ora questo nuovo studio lo quantifica con precisione, stabilendo anche con esattezza la velocità di scioglimento dei ghiacciai.

I ghiacciai contribuiscono per circa un terzo all'innalzamento del livello del mare, come lo scioglimento della calotta di ghiaccio della Groenlandia e più di quello della calotta dell'Antartide. La ricerca mette inoltre in evidenza come molti dei ghiacciai terrestri potrebbero scomparire nel corso del prossimo secolo.
Complessivamente la NASA stima che gli oceani salgano di livello tre millimetri ogni anno. Mano a mano che i mari si scaldano ulteriormente, l'espansione termica spingerà l'acqua ancora più su.

Lo studio per arrivare a questi risultati ha preso in esame 19 diverse regioni geologiche che erano state precedentemente indicate nel Randolph Glacier Inventory, l’ inventario dei ghiacci terrestri.
Le località costiere stanno già avvertendo gli impatti dell'innalzamento del livello del mare e lo scioglimento dei ghiacciai avrà degli impatti anche sulle comunità che fanno affidamento su di loro, tipo quelle del Perù dove funzionano come dei serbatoi d'acqua.
Le Ande peruviane ospitano alcune delle comunità che più di ogni altre sono legate alla salute dei ghiacciai. Sin dai tempi degli Inca i ghiacciai del Perù sono stati una risorsa d'acqua cruciale per i consumi umani e per l'agricoltura ma molti studi evidenziano che il ghiacciaio di Quelccaya, che si estende per circa 44 chilometri quadrati, potrebbe raggiungere un punto di non ritorno nel processo di scioglimento nel giro dei prossimi 30 anni.
Il vicino Venezuela è previsto che perda presto il suo ultimo ghiacciaio, il Pico Humboldt, anche se gli scienziati non sono ancora stati in grado di capire quando potrebbe esattamente sparire del tutto.
Nella regione dell'Himalaya l'acqua proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai sta formando pericolosi laghi che minacciano di provocare delle alluvioni.

I ricercatori concludono il loro report affermando che alcune regioni glaciali in Europa, Canada, USA e Nuova Zelanda potrebbero veder sparire completamente i loro ghiacciai entro il 2100.

La terra è qui da più di 4 miliardi di anni ed è sopravvissuta a cinque estinzioni di massa, non è lei ad essere in pericolo ma lo siamo noi.

Elena Mazzoni responsabile nazionale ambiente

ambiente25

Nel 2019, le rilevazioni dell’INPE (l’Istituto nazionale di ricerca spaziale brasiliano) raccontano un’accelerazione degli incendi, +79% rispetto allo stesso periodo del 2018.
In un contesto generale in cui, secondo la Global Forest Watch, il mondo ha perso, sempre nel 2018, più di 12 milioni di ettari di copertura arborea, 3,6 milioni dei quali costituiti da foresta pluviale.

Quali spinte economiche si trovano alle spalle di questo fenomeno?
Chi effettivamente ha interesse a proseguire in una deforestazione che avanza a ritmi vertiginosi, e non solo nel continente sudamericano?

Dalla politica di Bolsonaro carburante per gli incendi.
Una parte della risposta si trova innanzitutto nelle potentissime lobby dell’agribusiness che hanno consentito l’elezione dell’attuale presidente del Brasile Jair Bolsonaro, e continuano a sostenerlo. E così il neopresidente, che già in campagna elettorale parlava dell’Amazzonia verde come di un’ostacolo allo sviluppo, ha licenziato il presidente dell’INPE, Ricardo Galvao, per aver diffuso dati sgraditi sull’escalation della deforestazione.

Inoltre ha tagliato il 24% il budget discrezionale dell’agenzia ambientale IBAMA (Brazilian Institute of the Environment and Renewable Natural Resources) e togliendo la scorta di polizia ai suoi ispettori inviati sul territorio per verificare gli abusi. Risultato? Secondo un’analisi del «New York Times» su documenti pubblici, nei primi 6 mesi del 2019 l’agenzia ha ridotto del 20% le “azioni di contrasto intese a scoraggiare la deforestazione illegale, come multe o sequestro di attrezzature”.

Inoltre la deforestazione illegale prospera per i nostri stili di consumo, di cui l’attuale filiera del cibo si nutre, promuovendoli a sua volta per alimentare il profitto delle grandi multinazionali.

Che sia per ricavare olio di palma e mangimi, o per allevare bestiame, la domanda di nuove estensioni di terra cresce e la distruzione per ingrandire e rinnovare pascoli e piantagioni è funzionale al business delle grandi multinazionali: JBS, Bunge, Cargill, Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart e Sysco.

Una recente inchiesta, https://stories.mightyearth.org/amazonfires/index.html,
ha mostrato la vicinanza tra le zone più colpite dai roghi e la dislocazione delle infrastrutture necessarie alla filiera della carne e alle vie di comunicazione legate al trasporto della soia e dei suoi derivati.

gc amazzonia

Prima dell’industrializzazione il sistema climatico terrestre aveva raggiunto un equilibrio tale per cui la superficie emetteva circa la stessa quantità di energia che assorbiva.

Ma il sistema climatico terrestre è estremamente sensibile al cambiamento di una delle sue componenti e quando le concentrazioni di gas serra in atmosfera aumentano, più calore rimane intrappolato nel nostro pianeta, squilibrando il sistema con conseguenze devastanti fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio, con temperature medie di molti gradi più alti rispetto a oggi.

Le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera hanno raggiunto nuovi record nel 2017, con la CO2 al146% in più rispetto ai livelli preindustriali.

Rispetto a 30 anni fa la capacità dei gas serra di alterare il bilancio energetico terrestre è aumentata del 41%; la causa sono le attività umane, e in primo luogo l’utilizzo di combustibili fossili.

Nel 2010 il 35% delle emissioni globali provenivano dal settore dell’approvvigionamento energetico, il 24% dal settore dell’agricoltura, il 21% dall’industria, il 14% dai trasporti e il 6.4% dagli edifici.

Le emissioni globali inoltre sono ancora aumentate nel 2017, il tutto mentre, per restare entro la soglia dei 2°C di riscaldamento globale, entro il 2030 dovremmo tagliare le emissioni del 25% rispetto al 2010 e raggiungere lo zero netto nel 2070, mentre per restare entro 1.5°C nel 2030 le emissioni dovrebbero essere del 45% più basse rispetto al 2010 ed essere pari a zero già nel 2050.

Mantenendo le condizioni attuali già nel 2030 potremmo raggiungere un riscaldamento globale di +1.5°C per arrivare a oltre 4°C in più entro fine secolo.

I target nazionale di riduzione sono del tutto insufficienti rispetto a quanto la scienza ci chiede per contenere il riscaldamento globale sotto la soglia degli 1.5°C.

La proposta di Piano Nazionale Energia e Clima presentata a fine 2018 è stata giudicata poco ambiziosa e la bozza di DL ambiente e clima sposta al 2040 l’azzeramento dei sussidi ai fossili.

ambientaprc22

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