di Stefano Galieni (Liberazione del 30 marzo 2011)

Lucio Babolin è portavoce della campagna “I diritti alzano la voce”, nata nel 2009 come cartello di associazioni e organizzazioni del terzo settore, impegnate in una battaglia di resistenza contro i tagli alla spesa sociale imposti dal governo e che vuole però proporre un nuovo e inclusivo welfare nazionale. 

Il voto in commissione bicamerale sul federalismo regionale, approvato con l’accordo delle Regioni rischia di mettere altri elementi problematici rispetto ai già forti squilibri nello stato sociale. Cosa ne pensi? 

Non ho ancora visto il testo approvato. Sapevamo che c’era un tavolo degli assessori regionali alle politiche sociali. Noi abbiamo chiesto di predisporre un documento. Hanno stabilito un testo di cornice, vi sono elencati dei principi ma non individuava assolutamente dei livelli standard di servizi essenziali. Abbiamo saputo che il massimo che hanno potuto fare è stato allegare al testo una tabella elaborata attraverso i dati Istat, in cui erano quantificati, regione per regione, i costi complessivi globali per le spese sociali messe in campo per l’anno precedente, il tutto per elaborare una media ponderata pro capite. Siamo andati ad un incontro con gli assessori ma si è rivelato di fatto un momento di pura cortesia, non c’è stata l’apertura di un vero spazio di confronto. Ha partecipato anche il Forum Nazionale del Terzo Settore. Si parlava di sussidiarietà ma senza avere luogo e sede per esercitarla. Non abbiamo potuto avanzare proposte né provare a giungere ad un accordo. Ora abbiamo chiesto un incontro a Vasco Errani in quanto presidente della “Conferenza Stato Regioni”. Il testo che abbiamo presentato noi non fissa solo principi ma anche standard minimi esigibili. Standard che o possono essere specificati in un tavolo tecnico o che almeno possano avere lo stesso valore economico in tutta Italia. Questo è possibile solo se l’indicatore diventa un vincolo. Non è possibile che in alcune regioni sia di 110 euro pro capite e in altre sia ad un livello non compatibile. 

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di Paolo Ferrero (Liberazione del 24 febbraio 2011)

Il Cantiere che si apre oggi a Napoli organizzato dal Comitato “il welfare non è un lusso” è assai importante. In primo luogo per le associazioni e le realtà che coinvolge. Si tratta di uno spaccato di chi oggi concretamente sta facendo il lavoro sociale nel cosiddetto settore del pubblico non statale con una impostazione che punta all’emancipazione dei soggetti più deboli. Si tratta di un condensato di intelligenze, di intellettualità che opera sul territorio praticando l’assistenza alle persone con la ricostruzione dei legami sociali. Una intellettualità diffusa il cui lavoro è una risorsa decisiva per il paese e per una sua trasformazione. Una intellettualità che conosce il paese e che trasforma in volti e in percorsi di vita quella realtà che sovente siamo abituati a trattare come freddi numeri di statistiche. In secondo luogo perché l’attacco del governo al settore dei servizi sociali è pesantissimo. Il governo sta tagliando le risorse in modo clamoroso. Con il governo Prodi eravamo riusciti a portare il Fondo delle politiche sociali ad un cifra vicina al miliardo di euro. Adesso siamo a poco più di 200 milioni. Con il governo prodi avevamo dato vita al Fondo per la non autosufficienze stavamo costruendo i LIVEAS. Il governo Berlusconi ha sostanzialmente azzerato il fondo. L’operazione del governo non è solo quantitativa, è qualitativa: si tagliano i soldi per i servizi pubblici, si mantengono unicamente i trasferimenti monetari alle persone e si apre così uno spazio per i servizi privati. Al posto dei diritti di cittadinanza abbiamo da un lato la costruzione di un mercato privato destinato alle famiglie più abbienti e dall’altra la costruzione del terreno della marginalità e dell’esclusione che sovente ha nel carcere l’unica superficie di contatto con lo stato. In terzo luogo perché il cantiere di Napoli porrà la centralità politica della questione del welfare. Si tratta di un compito difficilissimo. Tutto il settore pubblico del lavoro sociale, della cura, dell’assistenza, non assume mai la dignità di un problema politico. Rimane sempre confinato nel limbo dell’assistenza, una specie di propaggine della famiglia abitato da persone caritatevoli – di cui molte donne - che si occupano dei “marginali”. Uno spazio che non riguarda le “persone normali” ma i “drop out”, in cui gli stessi operatori sono destinati a divenire “drop out”. Il cantiere di Napoli rifiuta questa ghettizzazione e rivendica fino in fondo che la civiltà di un paese si misura da come vengono trattati coloro che – in un determinato momento della propria vita – non ce la fanno da soli. Il cantiere di Napoli è importante perché dirà che quella sociale non è una spesa ma un investimento. Per tutti questi motivi ringraziamo gli organizzatori di questo appuntamento.

Il mancato rifinanziamento del fondo nazionale per la non autosufficienza, promesso mesi fa da Sacconi alle regioni, e il ripristino della social card, la carta dei poveri, fanno del milleproroghe una porcata senza precedenti. Da quando è in carica questo Governo ha ridotto le risorse sul sociale da 2 miliardi e mezzo ad appena 500 milioni (il fondo nazionale per le politiche sociali da 930 a 275 milioni, quello per le politiche della famiglia da 345 a 52,5, azzerato il Fondo nazionale per la non autosufficienza che nel 2010 ammontava a 400 milioni). Adesso, dopo aver smantellato i servizi sociali territoriali, ripropone l’inutile e costoso strumento della social card, affidandone parte della gestione ad alcuni enti caritativi. Assistiamo al paradosso tutto italiano che mentre aumentano i bisogni sociali di milioni di persone, dagli anziani ai disabili, si riducono servizi e prestazioni lasciando spazio ad un welfare caritatevole e mercantile.Chiediamo che nell’ultimo passaggio del decreto alla Camera si rimedi a tanta irresponsabilità e incompetenza nell’affrontare i problemi sociali dei cittadini, rifinanziando almeno il fondo non autosufficienza e spostando le risorse dalla social card al fondo nazionale per le politiche sociali.

di Antonio Ferraro* (Liberazione del 6 febbraio 2011)

Da un lato una crisi che non vede via d’uscita, mietendo vittime in Italia e in Europa: fuori controllo l’aumento di disoccupazione, povertà, disuguaglianze; moltiplicati i bisogni, vecchi e nuovi, fino a disegnare un quadro devastante fatto di persone e famiglie abbandonate al loro destino. Dall’altro Europa e governi nazionali che promuovono il rilancio di banche e speculatori, spesso coincidenti fra loro, attraverso la riduzione della spesa sociale e delle tutele dei lavoratori. In Italia il governo Berlusconi è in linea con l’Europa, anticipando persino i tempi sullo smantellamento dello stato sociale. I tagli a enti locali, sanità, scuola, fondi sul sociale sono iniziati già nel 2008, poi appesantiti con le varie finanziarie, manovre correttive e leggi di stabilità fino a normalizzare la retrazione dello stato per far spazio ad un modello di welfare mercantile e caritatevole (social card in primis). Solo alcuni dati per rendere più chiara la ‘macelleria sociale’ in atto: i fondi sul sociale sono passati da 2 mld e mezzo del 2008 ad appena 500 milioni nel 2011. In particolare, il FNPS passa da 930 a 275 milioni. Quello per le politiche della famiglia da 345 a 52,5. Azzerato il Fondo per la non autosufficienza. I trasferimenti agli EELL si riducono di 18 mld in due anni. I risultati di tutta questa ferocia iniziano a vedersi nonostante l’oscuramento dei media concentrati unicamente sulle notti di Arcore. Regioni e comuni non hanno più soldi per sostenere i servizi essenziali. La situazione più drammatica al Sud, come dimostra la giusta protesta dei lavoratori sociali di Napoli, coalizzati sotto il nome significativo “il welfare non è un lusso”, che da settimane chiedono le dovute risorse arretrate a comune e regione. Entro l’anno molti servizi sociali saranno ridotti o chiusi, dagli asili nido alle case famiglia. Di conseguenza, migliaia di operatori rischiano, soprattutto al Sud, di perdere un lavoro già segnato da condizioni precarie e bassi salari. Persone anziane, con disabilità, minori, ex detenuti, tossicodipendenti, migranti vedranno negati i loro diritti sociali, quelli ‘scritti’ nella nostra Costituzione. Si sceglie la via della privatizzazione dei servizi, accessibili solo a chi può permetterseli; gli altri si rifugino nella emarginazione, nell’esclusione sociale. E il federalismo sarebbe il colpo di grazia perché acuirebbe ulteriormente le disuguaglianze sociali e territoriali. Reagire? Sì, ma con chi, con quali idee e con quali risorse? La risposta, le risposte vanno costruite innanzitutto superando le contraddizioni che albergano anche in gran parte delle forze della sinistra, del terzo settore e dei sindacati. Le prime, complici di una deriva costruita negli anni, in cui si sono alimentati più sistemi clientelari che risposte ai bisogni dei cittadini; le seconde, si sono spesso adattate e maturate in quei sistemi; le terze hanno trascurato il mondo del lavoro sociale, sottovalutandone sia l’importanza occupazionale che sociale e lasciando in mano alle centrali cooperative, ormai divenute la “confindustria del sociale”, la contrattazione sul territorio. Va ricostruita l’intera e articolata macchina dei servizi sociali, valorizzando le buone pratiche e dismettendo le storture di sistema. Occorre pensare ad un modello alternativo a quello delle destre, tenendo insieme i diritti del cittadino e del lavoratore sociale attraverso un welfare pubblico e partecipato. Vanno definiti i livelli essenziali di assistenza sociale per riconoscere e garantire universalmente, da nord a sud, quei diritti costituzionali di inclusione e uguaglianza sociale dimenticati, rispondendo alla richiesta di sicurezza sociale. Un modello che veda il Pubblico assumersi la responsabilità di garantire un sistema di prestazioni accessibili a tutte e a tutti, dove la programmazione si basa sulla lettura partecipata dei bisogni e la gestione la rispetta fino in fondo, affidando la valutazione della qualità dell’offerta direttamente alla cittadinanza. Insomma, va eliminato il “vizietto” di delegare a chi “costa di meno”, rinunciando a qualità dei servizi e tutele dei lavoratori. Il Terzo settore, dal canto suo, deve uscire dalla logica del mercato e accentuare la sua funzione pubblica, allargando e potenziando la sfera dei servizi territoriali senza sostituirsi al pubblico. Il salto in avanti sta nel costruire una sfera pubblica più ampia di quella statale che cresca al posto del mercato, intorno a cui ritessere una trama di relazioni significative di donne e uomini che intrecci la questione salariale con la crescita e lo sviluppo di reti solidali. Con questa ‘inversione di marcia’ si legittima la presunzione di rimettere al centro della politica la questione sociale, rilanciando il concetto che le risorse destinate non sono spese da tagliare ma un investimento per uno sviluppo socialmente sostenibile. E non si parla della spartizione dell’ultima fetta di torta rimasta, ma di ricomporre l’intera torta necessaria attraverso una riforma fiscale basata sulla progressività, la lotta all'evasione fiscale, una tassa sui grandi patrimoni, il taglio delle spese militari. Si liberebbero miliardi di euro per una causa utile, che riguarda tutti noi. Queste sono solo alcune riflessioni e proposte, che andrebbero discusse serenamente fra i soggetti sociali e politici interessati, senza le solite accuse reciproche, inutili ai fini del risultato. 

*responsabile nazionale Politiche sociali Prc-FdS

"Durante la giornata internazionale delle persone con disabilità, che ricorre oggi 3 dicembre, il Governo farebbe bene a tacere perché dal 2008 ad oggi ha solo peggiorato le loro condizioni attraverso tagli e politiche che stanno smantellando lo stato sociale, dalla scuola alla sanità fino ai servizi sociali". E' quanto afferma in una nota il segretario nazionale del Prc/Federazione della sinistra, Paolo Ferrero. "E' offensivo verso queste persone, che già vivono condizioni difficili, parlare di pari opportunità, integrazione e inclusione sociale quando si sta facendo l'opposto - spiega Ferrero - I fondi sul sociale sono passati da 2 miliardi e mezzo del 2008 ad appena 500 milioni nel 2011. In particolare, il fondo nazionale per le politiche sociali passa da 930 a 275 milioni. Quello per le politiche della famiglia da 345 a 52,5. Il Fondo per la non autosufficienza non avrà neanche 1 euro nel 2011. I trasferimenti a regioni, province e comuni si riducono di 18 miliardi in due anni. Tagli che determinano la riduzione, quando non la chiusura, di servizi sociali, socio sanitari ed educativi". "Per queste ragioni condividiamo la scelta della Fand, la Federazione che raccoglie tra le più grandi associazioni dei disabili, di disertare la cerimonia farsa organizzata per stasera dalla ministra Carfagna - conclude Ferrero - Questo Governo irresponsabile e antisociale deve tornarsene a casa con tutte le sue meschinità per ridare speranza al mondo delle persone con disabilità che hanno diritto ad una vita dignitosa come gli altri".

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