di Antonio Ferraro* (Liberazione del 6 febbraio 2011)
Da un lato una crisi che non vede via d’uscita, mietendo vittime in Italia e in Europa: fuori controllo l’aumento di disoccupazione, povertà, disuguaglianze; moltiplicati i bisogni, vecchi e nuovi, fino a disegnare un quadro devastante fatto di persone e famiglie abbandonate al loro destino. Dall’altro Europa e governi nazionali che promuovono il rilancio di banche e speculatori, spesso coincidenti fra loro, attraverso la riduzione della spesa sociale e delle tutele dei lavoratori. In Italia il governo Berlusconi è in linea con l’Europa, anticipando persino i tempi sullo smantellamento dello stato sociale. I tagli a enti locali, sanità, scuola, fondi sul sociale sono iniziati già nel 2008, poi appesantiti con le varie finanziarie, manovre correttive e leggi di stabilità fino a normalizzare la retrazione dello stato per far spazio ad un modello di welfare mercantile e caritatevole (social card in primis). Solo alcuni dati per rendere più chiara la ‘macelleria sociale’ in atto: i fondi sul sociale sono passati da 2 mld e mezzo del 2008 ad appena 500 milioni nel 2011. In particolare, il FNPS passa da 930 a 275 milioni. Quello per le politiche della famiglia da 345 a 52,5. Azzerato il Fondo per la non autosufficienza. I trasferimenti agli EELL si riducono di 18 mld in due anni. I risultati di tutta questa ferocia iniziano a vedersi nonostante l’oscuramento dei media concentrati unicamente sulle notti di Arcore. Regioni e comuni non hanno più soldi per sostenere i servizi essenziali. La situazione più drammatica al Sud, come dimostra la giusta protesta dei lavoratori sociali di Napoli, coalizzati sotto il nome significativo “il welfare non è un lusso”, che da settimane chiedono le dovute risorse arretrate a comune e regione. Entro l’anno molti servizi sociali saranno ridotti o chiusi, dagli asili nido alle case famiglia. Di conseguenza, migliaia di operatori rischiano, soprattutto al Sud, di perdere un lavoro già segnato da condizioni precarie e bassi salari. Persone anziane, con disabilità, minori, ex detenuti, tossicodipendenti, migranti vedranno negati i loro diritti sociali, quelli ‘scritti’ nella nostra Costituzione. Si sceglie la via della privatizzazione dei servizi, accessibili solo a chi può permetterseli; gli altri si rifugino nella emarginazione, nell’esclusione sociale. E il federalismo sarebbe il colpo di grazia perché acuirebbe ulteriormente le disuguaglianze sociali e territoriali. Reagire? Sì, ma con chi, con quali idee e con quali risorse? La risposta, le risposte vanno costruite innanzitutto superando le contraddizioni che albergano anche in gran parte delle forze della sinistra, del terzo settore e dei sindacati. Le prime, complici di una deriva costruita negli anni, in cui si sono alimentati più sistemi clientelari che risposte ai bisogni dei cittadini; le seconde, si sono spesso adattate e maturate in quei sistemi; le terze hanno trascurato il mondo del lavoro sociale, sottovalutandone sia l’importanza occupazionale che sociale e lasciando in mano alle centrali cooperative, ormai divenute la “confindustria del sociale”, la contrattazione sul territorio. Va ricostruita l’intera e articolata macchina dei servizi sociali, valorizzando le buone pratiche e dismettendo le storture di sistema. Occorre pensare ad un modello alternativo a quello delle destre, tenendo insieme i diritti del cittadino e del lavoratore sociale attraverso un welfare pubblico e partecipato. Vanno definiti i livelli essenziali di assistenza sociale per riconoscere e garantire universalmente, da nord a sud, quei diritti costituzionali di inclusione e uguaglianza sociale dimenticati, rispondendo alla richiesta di sicurezza sociale. Un modello che veda il Pubblico assumersi la responsabilità di garantire un sistema di prestazioni accessibili a tutte e a tutti, dove la programmazione si basa sulla lettura partecipata dei bisogni e la gestione la rispetta fino in fondo, affidando la valutazione della qualità dell’offerta direttamente alla cittadinanza. Insomma, va eliminato il “vizietto” di delegare a chi “costa di meno”, rinunciando a qualità dei servizi e tutele dei lavoratori. Il Terzo settore, dal canto suo, deve uscire dalla logica del mercato e accentuare la sua funzione pubblica, allargando e potenziando la sfera dei servizi territoriali senza sostituirsi al pubblico. Il salto in avanti sta nel costruire una sfera pubblica più ampia di quella statale che cresca al posto del mercato, intorno a cui ritessere una trama di relazioni significative di donne e uomini che intrecci la questione salariale con la crescita e lo sviluppo di reti solidali. Con questa ‘inversione di marcia’ si legittima la presunzione di rimettere al centro della politica la questione sociale, rilanciando il concetto che le risorse destinate non sono spese da tagliare ma un investimento per uno sviluppo socialmente sostenibile. E non si parla della spartizione dell’ultima fetta di torta rimasta, ma di ricomporre l’intera torta necessaria attraverso una riforma fiscale basata sulla progressività, la lotta all'evasione fiscale, una tassa sui grandi patrimoni, il taglio delle spese militari. Si liberebbero miliardi di euro per una causa utile, che riguarda tutti noi. Queste sono solo alcune riflessioni e proposte, che andrebbero discusse serenamente fra i soggetti sociali e politici interessati, senza le solite accuse reciproche, inutili ai fini del risultato.
*responsabile nazionale Politiche sociali Prc-FdS