di Moni Ovadia
Il mio amico Luciano Rapotez, 93 anni, ex comandante partigiano nella zona di Muggia - oggi segretario dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, sezione di Udine – non cessa di ripetere questa frase: «I dolori della tortura non vanno in prescrizione». In breve, la vicenda che lo portò a subire la crudele esperienza della tortura: dieci anni dopo la fine della guerra di Liberazione, Rapotez fu arrestato sotto casa sua a Trieste con l’accusa di triplice omicidio. La città giuliana viveva in quegli anni una lacerazione da guerra civile perdurante ed era pervasa da un forte revanscismo fascista. L’accusa era stata costruita ad arte per incastrare degli ex partigiani. Per farlo confessare gli agenti di polizia e di custodia, ex fascisti, lo sottoposero a 306 ore di tortura, nella forma di ogni sorta di tormento che il sadismo del torturatore alambicca contro la sua vittima inerme: ripetute percosse, privazione continua del sonno, negazione dell’acqua, del cibo e della soddisfazione dei bisogni corporali per giorni e giorni. Rapotez fu rimesso in libertà dopo l’assoluzione in assise per interessamento dell’onorevole Aldo Moro che era rimasto sconvolto dal suo caso e in seguito assolto in ogni grado di giudizio. Nel frattempo però la sua famiglia si era distrutta, non trovò più lavoro e dovette emigrare in Germania dove si rifece una vita.